le mie Marche

Cesare Peruzzi e il suo realismo poetico

Arte e Cultura

Tra qualche anno forse non esisteranno più i quadri e quindi nemmeno i pittori, men che meno le gallerie d’arte che già oggi si riuniscono in conclave nei siti internet a dissertare su mere quotazioni di mercato tra un artista e l’altro.
Che cosa è l’arte, cosa rappresenta, qual’è la sua funzione nella coscienza collettiva di un popolo e di un territorio sembra non interessi più nessuno, l’importante è conoscere il suo valore su una cosmica piazza affari che ha perso i più elementari connotati umani.  L’arte, che finora ha caratterizzato  l’Uomo  come rappresentazione  di un tempo e un luogo nella storia sociale ed economica del paese, ha smarrito totalmente il suo senso di collante tra un epoca e l’altra. Oggi c’è un vuoto spaventoso, nella quale sembriamo tutti girare come ioni impazziti e senza tregua.
Perchè non basta liberare lo spirito dalla materia per fare di una tela un’opera d’arte, occorrono fatica e studi e anni di isolamento e amicizie insieme, essere preso dal vortice e allo stesso tempo essere capace di starne fuori. L’incorporeo che si fa corporeo, il Dio che si fa carne, l’essenza che si fa sostanza. La vocatio non è un concetto astratto, asseriva Hillman, è un bisogno fisiologico dell’Uomo di uscire dal suo labirinto cercando di non fare la fine di Icaro, di non bruciare tutto e soprattutto di non bruciarsi.
Cesare Peruzzi non corse questo rischio, egli fin da giovanissimo fù mandato alla Scuola d’arte di Macerata, lui che era di Recanati come Leopardi,  dove conobbe Ivo Pannaggi che poi lo incoraggia a prendere la strada della pittura. Teseo ha trovato subito Arianna, in questo senso.
Si trasferisce a Roma dove si iscrive all’Istituto Superiore di Belle Arti, siamo nel 1915 ed espone alla Mostra Internazionale della Secessione assieme a nomi del calibro di Degas, Cezanne, Renoir, Casorati e Guidi. Dopa la prima guerra mondiale combattuta in Albania , ritorna di nuovo a Roma e si iscrive all’Accademie de France perfezionandosi nel nudo.

                                                                                       Contadini a tavola , 1927.  Palazzo Buonaccorsi – Musei Civici di Palazzo Buonaccorsi – Macerata

Quello che lo attrae è la persona, la sua umanità purificata da espressioni leziose, le figure sono reali e realistiche, rappresentazioni storiche di un periodo a cavallo tra impressionismo ed espressionismo, cattura il quotidiano di una famiglia contadina a tavola dove si consuma la polenta mangiata direttamente sulla spiendola e subito diventa il manifesto verista della società mezzadrile marchigiana dei primi del Novecento, ne evidenzia la povertà ma anche l’attaccamento al focus familiare, con il vergaro, i suoi figli e la vergara col fazzoletto in testa. Vorremmo vedere altro, affamati di notizie sul corpus economico sociale dell’epoca, decisamente avaro nel descrivere la reale situazione di vita della povera gente nelle Marche e scorgiamo la forchetta usata dalla bambina, il guanto sullo sfondo e le brocche sulle scansie e quel pane, grande, significativo, immenso. Il pane è il simbolo della povertà che sta bene, nonostante tutto, il pane è simbolo eucaristico di vita, di futuro, di redenzione e di allontanamento dal male. Finchè c’è il pane c’è speranza, si potrebbe dire.
Di Cesare Peruzzi amiamo i suoi ritratti, i bambini che giocano al mare sulla sabbia, sono trascorse due guerre mondiali nel frattempo, le cose sono cambiate, egli attraversa tutto il Novecento con la sua arte, dato che è nato nel 1894 e vive fino al 1995, un vero rappresentante lirico di un secolo forte  e i suoi relativi passaggi da un familismo cattolico ad un individualismo infecondo fino al globalismo attuale che ha smarrito la sua anima.La pittura di Cesare Peruzzi ci aiuta a ritrovarla, anche se solo per qualche istante.

Lorenza Cappanera

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